Dal 7 ottobre, i crimini genocidi israeliani a Gaza hanno sollecitato vasta condanna popolare. Straordinaria è la protesta antisionista scatenatasi nei campus statunitensi in risonanza con il policentrismo di analoghe iniziative che sono poi maturate a livello globale. Il palesarsi di tale imponente rifiuto delle politiche colonialiste assume ancor più valore riuscendo a mettere in crisi il sistema repressivo optato da Usa e alleati europei. Militari e poliziotti sono stati massicciamente, antidemocraticamente, impiegati dai governi occidentali a scopo repressivo delle proteste, in ragione di strumentali accuse di antisemitismo, selezionate à la carte e finalizzate a soffocare anche il minimo disgusto per l’operato sanguinario e coloniale di Tel Aviv.
In sinergia con tale feroce apparato agisce l’opera “informativa” dei media mainstream, degli irriducibili influencer (incalliti e di nuovo conio), di una miriade di dibattiti tanto ipocriti quanto sterili. In particolare, tra quest’ultimi si segnalano quelli sul ritornello stantìo dei “due popoli, due stati”, sulla sacralità universale di un diritto internazionale inconcludente, sulle acrobazie ideologiche, spettacolari e ridicole, di simpatia per la resistenza purché inoffensiva, prona agli effetti materiali intimati dal sionismo. La presenza palestinese in tali dibattiti è perlopiù marginale, discriminata, sovente rappresentata da falafel e hummus nelle appendici etno-gastronomiche degli appuntamenti a suggellare il senso orientalista di questo stucchevole contesto. Anche per queste ragioni pare doveroso segnalare il recente forum internazionale organizzato lo scorso mese dal Fronte del Dissenso presso il centro congressi Cavour di Roma. “Quale futuro per la Palestina” è stato un evento fuori dal coro, rara occasione italiana di genuino approfondimento e confronto, con la partecipazione di decine di esponenti di spicco provenienti da tutto il mondo.
Com’è giusto che fosse, robusta è stata la testimonianza di relatori palestinesi e provenienti da altri Paesi arabi a sostegno della resistenza a Gaza e in Cisgiordania. Il programma ha comunque offerto molteplici spunti raccogliendo notevoli interventi di diplomatici, politici, giornalisti, sindacalisti dei vari continenti e ampio spazio è stato dedicato al racconto di rappresentanti del mondo ebraico antisionista. Le parole di Moreno Pasquinelli, fondatore del Fronte del Dissenso, sintetizzano il valore del Forum: “Si tratta di un evento che per caratteristiche e articolazione difficilmente avrebbe potuto esser messo in pratica dall’apparato mainstream-istituzionale. Il messaggio di lotta contro la ferocia militare di un imperialismo basato su un mondo unipolare emerge da un confronto che raccoglie pluralità di pensiero, esperienze e culture”.
Alla luce della clamorosa iniziativa militare con droni e missili lanciati da Teheran e diretti a Israele, in risposta all’attentato commesso ai danni del consolato iraniano a Damasco, ci è parso utile porre particolare attenzione alle parole di Ali Fayyad, accademico e politologo, parlamentare di rilievo nel partito di Hezbollah e una delle voci di spicco partecipanti al Forum. Nei suoi interventi, l’esponente libanese ha evidenziato aspetti per molti versi inattesi, a suo dire, dell’operazione Al-Aqsa Flood del 7 ottobre. “Non era così scontato prevedere il livello di coraggio e di forza espressa dai palestinesi e nemmeno che Israele potesse cedere con tale evidenza”, ha affermato Fayyad. “È a tutti nota la crudeltà militare sionista ma non era immaginabile che potesse arrivare al punto di attuare pratiche genocide e di induzione della carestia a Gaza. A questo bisogna aggiungere che, con l’eccezione di posizioni espresse da Spagna, Irlanda, Belgio e in Francia da Melenchon, è stata vergognosa la posizione europea di sostanziale disinteresse, se non di complicità, rispetto ai crimini di Gaza”. Ali Fayyad ha poi più volte rimarcato l’importanza dell’integrazione tra le forze di resistenza, includendo la rilevanza di un fattore unitario di lotta in ambito internazionale contro un mondo unipolare e imperialista sotto l’egida Usa. “Per una questione di equilibrio strategico – ha continuato Fayyad – è indispensabile elevare la collaborazione tra le forze resistenti a livello sia regionale che internazionale. L’opposizione a un ordine mondiale ingiusto deve essere al primo punto delle agende di tutte le componenti internazionali interessate. Noi speriamo vivamente che si sviluppi in Occidente un movimento consistente che raccolga tali istanze, con soggetti politici che arrivino a ricoprire tale ruolo guida”.
“Resistere – ha poi dichiarato il politico libanese – è l’unica scelta per sconfiggere l’occupazione sionista. La resistenza non si sviluppa solo per liberare i territori: adesso, più che mai, serve a garantire l’esistenza stessa dei popoli. Hezbollah si confronta seguendo regole militari morali, che lo stesso diritto permette, come ad esempio avviene nelle Sheba farms. Se però Israele colpisce altri siti civili, costringe a rispondere con la stessa moneta ma è bene ricordare che Hezbollah attua tattiche di logoramento che si sono dimostrate abili nel mettere a nudo la debolezza di Israele che mira invece a un conflitto aperto”.
A margine delle sessioni in cui è stato impegnato, Ali Fayyad si è reso disponibile per qualche domanda di approfondimento.
All’interno della complessità attuale, qual è l’orizzonte strategico ispira Hezbollah?
La strategia di Hezbollah è invariata ed è quella di liberazione dei territori libanesi occupati, di prevenire ogni velleità di Israele nel violare la nostra sovranità e di salvaguardare le risorse naturali presenti in Libano. Mi riferisco, in particolare al patrimonio delle riserve di acqua, gas, petrolio. Naturalmente, Hezbollah sostiene con forza i palestinesi nell’acquisire i propri diritti e ritornare nel pieno possesso dei propri territori.
Nel corso del Forum, lei ha più volte sostenuto che un fattore strategico per la rimozione dell’occupazione imperialista è l’integrazione delle forze di resistenza fino al raggiungimento di una piena loro unità. Saremmo dunque attualmente ancora in una fase di integrazione o l’unità della resistenza si può considerare raggiunta?
Penso che il legame tra le varie componenti dell’Asse della resistenza sia molto forte e le relazioni tra esse progrediscono nel senso di ulteriore vicinanza con valori espressamente unitari. È evidente che la resistenza, con gli avvenimenti di questi ultimi mesi a testimoniarlo, si stia ulteriormente rafforzando e consolidando in tal senso. Non v’è dubbio che prima agisse con modalità e operazioni non omogenee e più separate rispondendo a specifici interessi di carattere locale. Adesso ha raggiunto una natura consistente nella regione e agisce secondo criteri strategici. Siamo convinti che l’ordine regionale stia cambiando, siamo di fronte a nuove equazioni, nuove configurazioni di potere.
Passiamo al recente coinvolgimento diretto dell’Iran nel conflitto regionale. Molti hanno commentato che si è trattato di un attacco scenografico il 14 aprile mentre sinora, nel confronto con l’occupazione sionista, l’Iran si era servito dei suoi proxies in regione: Hezbollah, Hamas, Houti. Cosa commenta a riguardo?
Intanto, va detto che è del tutto inammissibile che nel ventunesimo secolo possa avvenire un attacco alla sede diplomatica di un Paese collocata in un territorio terzo sovrano. Di fronte a un atto così grave e sfacciato da parte di Israele, l’Iran è intervenuto ponendo fine alla sua tradizionale condotta di pazienza strategica, passando a quella della deterrenza attiva. Si è trattato di un’azione significativa, di legittima risposta e non era così scontato pronosticare che l’Iran intervenisse con un piano di così elevata intensità e qualità. Detto ciò, è chiaro, ed è stato ufficialmente dichiarato, che non si vuole introdurre uno scenario di conflitto aperto nel quadro regionale: sarebbe insensato. Tuttavia, l’Iran ha inteso dimostrare che sarebbe ben pronto a farlo se Israele dovesse continuare nelle sue provocazioni. Per completezza di risposta, è importante ricordare che l’Iran non è in rapporto con i suoi alleati stimolandone le azioni per procura, dunque ritenendoli suoi proxies nella regione. All’interno dell’Asse della Resistenza, ogni componente ha la sua speciale posizione occupandosi delle esigenze locali.
All’interno della componente palestinese, se da una parte il 7 ottobre ha cementato l’intesa delle varie fazioni resistenti, resta aperta la questione dei rapporti con l’Autorità e con Abu Mazen. Qual è la posizione di Hezbollah a riguardo, anche in vista di futuri sviluppi?
Noi incoraggiamo i palestinesi a favorire il dialogo interno tra le varie fazioni e a superare i problemi col confronto per raggiungere condizioni di accordo. Penso sia fondamentale riuscire a stabilire un programma nazionale palestinese capace di accogliere tutte le istanze palestinesi politiche e militanti: è una delle principali condizioni per conseguire la vittoria.
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